venerdì 10 DICEMBRE 2004
Direzione, redazione,
amministrazione, tipografia in Vicolo Borgondio n. 6 - Brescia - Cicl. in
proprio. A sottoscrizione -
Articoli e fotografie non verranno rispediti,
ma potranno essere ritirati presso la sede tutti i giovedì dopo le 21.00 |
Al
Teatro Italiano, alle istituzioni, agli organi di stampa
IL 'BENE' SUPERFLUO
In questo momento qualsiasi analisi mi appare gratuita e irrilevante,
anche il più lucido esercizio di ragione, sconsiderato; e tuttavia non
vorrei cedere alla retorica disperante quanto tardiva che ogni appello,
ogni richiesta d'aiuto porta inevitabilmente in sé, né tantomeno credo
di poter sollevare la sensibilità di quanti riceveranno questa lettera
verso una azione che è tanto più urgente e necessaria quanto più fuori
da ogni personalismo, condivisa, permanente.
In questi giorni, come è ormai noto, molte compagnie e imprese teatrali
e, specificamente quelle dell'area definita di innovazione e del teatro
per l'infanzia e la gioventù, sono oggetto di sperimentazione di quella
strategia politica ed economica, già da tempo applicata ad altre
categorie sociali del paese e forse da noi stessi colpevolmente ignorata.
Una strategia che indica come uno dei principali motori di rilancio
dell'intero "Sistema Italia", una 'sana', 'scientifica' e
diffusa opera di individuazione di sprechi nella spesa pubblica, e il
successivo taglio dei cosiddetti beni superflui.
Un processo virtuoso che origina poi il conseguente reinvestimento in
attività e imprese altrettanto 'scientificamente' individuate e
'acclaratamente' in possesso di requisiti di pubblica utilità e
comprovata produttività.
Oggi noi e centinaia di altre persone tra macchinisti, elettricisti,
scenografi, costumisti, attori, drammaturghi, registi, organizzatori,
trasportatori, grafici, responsabili di segreteria, cassieri, addetti
stampa, facchini, amministratori... e le famiglie di ognuno di essi, in
tutt'Italia, impariamo dunque cosa è bene superfluo.
Superfluo è il bene quotidiano che ognuno di noi esercita da dieci,
quindici, venti, trenta anni, verso un'arte impietosa; dura con le nostre
vite come dura è nel farsi apprendere, nello schiudere l'incanto della
poesia che minaccia e promette ogni trasformazione, ogni possibilità di
comprensione, di approfondimento e di profonda mutazione della realtà.
Che minaccia e promette. E a volte inganna.
Superfluo è il bene dell'allievo che si educa a rimanere per sempre
tale, e lo giura, e per sempre trepida alla Domanda che ogni giorno lo
spaventa.
E superfluo è il bene di chi in quella fatica lo accompagna, e lo
ascolta, e lo scruta e attende che quel gesto, quella parola, quel canto,
quel moto d'animo possa incominciare a bruciargli la vita in un rogo
felice, per sua grande sventura.
Superfluo è il bene di quelli, che hanno barattato tutta una vita
rispettabile, una carriera certa, il perfetto approdo dell'individualismo,
con la moneta fuori corso dell'esperienza collettiva.
Superfluo è il bene della fatica spesa nei teatri nascosti, in
palestre di periferia, in ricoveri per anziani, in corsie d'ospedale,
nelle carceri come nelle scuole per affermare il fatto senza prove che
l'uomo può essere l'uomo; sempre.
Davide Jodice
per libera mente
e per
I Teatrini |
AUTUNNO
CALDO, CALDISSIMO ANZI...GELATO!
Di Enzo Cadei
Come ogni ripresa post-vacanze estive, partono le dichiarazioni per la
stagione di lotte. Vuoi contro la finanziaria, vuoi contro la solita
(contro) riforma pensionistica o legislativa, da parte dei sindacati
confederali si annunciano i no pasaran e le barricate mentre invece il
finale è sempre lo stesso. Ma quanto accaduto negli ultimi mesi e quanto
sta accadendo ora sta superando ogni più nera previsione. L'ultima
riforma pensionistica, gravissima è sempre più peggiorativa (anche se è
solo un gradino in più verso la VERA riforma pensionistica: eliminazione
delle pensioni di anzianità e tutti in pensione di vecchiaia a 65 anni
indipendentemente dagli anni lavorati), ha meritato da parte di
CGIL-CISL-UIL ben "2 ore di sciopero quando la riforma diventerà
legge". Intanto nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro gli operai
sono nel buio più totale e le uniche informazioni che hanno sono
volantoni che illustrano genericamente quello che la riforma produrrà
neanche 1 ora di assemblea. Le informazioni invece ci sono per quanto
riguarda le previdenze complementari (cogestite, GUARDACASO, dagli stessi
sindacati confederali) e il silenzio-assenso sulla destinazione dei TFR di
cui non ci sarebbe urgenza visto che della legge in materia esistono solo
le linee guida e non i decreti attuativi. Infine, dopo mesi di
"inattività", visto anche la situazione economica sempre più
disastrosa di milioni di sfruttati precari o a "posto fisso" non
importa, sono state decise BEN 4 ore di SCIOPERO GENERALE (8 ore non van
più di moda, sono troppe), che sarà fatto nella legalità e nel rispetto
della varie fasce orarie: ho ancora nella mente le penose immagini del
gennaio scorso dove, come a Brescia, persino i Segretari Generali delle
Camere del Lavoro erano impegnati CONTRO gli scioperanti, salvo poi
pentirsene e rimanere fregati da queste leggi sulla limitazione del
diritto di sciopero in vigore dal 1990 e a cui la stessa CGIL aveva dato
una mano nella stesura. Purtroppo neanche nel mondo extra-confederale se
la passa meglio. Dopo la grande manifestazione del febbraio 2003, tra i
sindacati di base sono tornati gli antichi vizi, le divisioni tra chi è
più o meno vicino ai confederali, tra chi ha più o meno funzionari o
burocrati, sul modo di gestione dei sindacati di base (alcuni sono più
stalinisti di Stalin).
Gli anarchici e i libertari dovranno in futuro, al di là del sindacato di
appartenenza (Confederale o di Base) o della non iscrizione ad alcun
sindacato, sempre più caratterizzare la lotta sociale, a partire dal
proprio luogo di lavoro ma non fossilizzandosi su di esso, portando le
proprie rivendicazioni e il proprio agire quotidiano anche come tentativo
di cambiamento rispetto al "solito" agire sindacale. A tal fine
trovo utile intensificare gli incontri tra i militanti anarchici impegnati
nei luoghi di lavoro.
Infine un piccolo accenno ad alcune situazioni locali. La FIOM, la
"MITICA" FIOM, passa per essere il sindacato più a sinistra
della CGIL: visti i tempi ciò non è molto difficile. La FIOM di Brescia
è vista come la FIOM più a sinistra d'Italia. Dall'ultimo Congresso è
cominciata un'epurazione degli elementi "scomodi": non sto
parlando del sottoscritto (pericoloso militante anarchico e in quanto
anarchico mai interessato a ruoli dirigenti o di potere) ma di compagni
che avevano il pregio, al di là della propria appartenenza partitica, di
pensare con il proprio cervello senza essere meri esecutori di direttive
altrui. Con "spostamenti" e "passaggi" di categorie,
si sono mascherati come "promozioni" vere e proprie purghe:
bella cosa, direte voi, è sempre stato così. Sì, però non si può
parlare di moralità nei rapporti con i lavoratori, di ascolto della base
se sotto sotto ci si comporta così. Se questa è la FIOM più a sinistra
d'Italia non oso immaginare come siano ridotti gli altri. |
Dove
nasce il P.C.B.
I PCB - una miscela di sostanze composta da 209 congeneri con diverso
profilo di tossicità - sono difficilmente
degradabili nell'ambiente e sono ormai diffusi in tutto il mondo
Nel 1929, la Swann Chemical Company, con sede a East St. Louis,
Illinois, acquisita poco prima da Monsanto, sviluppò i policloruri di
vinile (PCB in inglese), che furono molto lodati per la loro straordinaria
stabilità chimica e ininfiammabilità. Il loro uso più frequente si ebbe
nell'industria di apparecchiature elettriche, che scelse i PCB come
refrigeranti incombustibili di una nuova generazione di trasformatori. La
prova degli effetti tossici del PCB risale agli anni '30, e, negli anni
'60, scienziati svedesi che studiavano gli effetti biologici del DDT,
cominciarono a trovare concentrazioni significative di PCB nel sangue,
pelo e tessuti grassi degli animali selvatici .
I bifenili policlorurati (PCB) hanno origine sintetica e sono composti
da una miscela di 209 congeneri, molecole, cioè, simili tra loro. La loro
caratteristica fondamentale è la stabilità chimica e una relativamente
bassa infiammabilità, proprietà che ne giustificano un vasto impiego
nell'industria elettrotecnica. Si tratta di sostanze pericolose,
classificate come 'probabilmente cancerogene, caratterizzate da una forte
persistenza nell'ambiente e soprattutto perché in grado di accumularsi
lungo la catena alimentare. Fanno parte, insieme alle diossine, dei 12
inquinanti organici persistenti (Persistent Organic Pollutants - POP)
registrati a livello internazionale. Sono stati fabbricati e impiegati
fino al 1986, anno nel quale è entrato in vigore il divieto di
commercializzazione e di uso, in condensatori e trasformatori, nell'olio
idraulico, in vernici, resine, materie sintetiche, inchiostro di stampa, e
colle. Si ritiene che attualmente le maggiori fonti di contaminazione
siano ancora presenti nelle vernici di ponti (rivestimenti di protezione
contro la corrosione), in condensatori e nelle masse di sigillatura a
elasticità permanente dei giunti delle grandi edificazioni di
calcestruzzo di vecchia data.
L'indagine durante gli anni '60 e '70 rivelò che i PCB e altri
composti chimici aromatici erano fortemente cancerogeni, e che provocavano
disturbi della riproduzione, dello sviluppo e del sistema immunitario.
Nel 1972 è stato vietato l'impiego di PCB in sistemi aperti, ossia
vernici, masse di sigillatura, stoffe e carta.
Tuttavia, i PCB sono tuttora presenti in edifici con masse di sigillatura
dei giunti contenenti PCB costruiti prima della messa al bando di questi
veleni, questi possono giungere nell'aria ambiente ed essere respirati.
A causa di inquinamenti ambientali precedenti, i PCB sono inoltre
pressoché onnipresenti nell'ambiente. I PCB vengono assunti in piccole
dosi con l'alimentazione quotidiana e si accumulano nei tessuti adiposi
dell'uomo e degli animali. Ciò nonostante, in virtù della diminuzione
della concentrazione ambientale, il carico negli ultimi 15 anni è
diminuito. Affinché questa evoluzione persista, occorre smaltire a regola
d'arte le fonti residue potenziali di contaminazione con PCB, segnatamente
i rivestimenti di protezione contro la corrosione dei ponti e le masse di
sigillatura dei giunti contenenti PCB di determinate edificazioni in
calcestruzzo.
La metà dei grandi edifici in cemento con giunti realizzati tra il 1955 e
il 1975 contiene PCB.All'epoca, l'applicazione alle costruzioni dei PCB
venne considerato un colpo di fortuna per l'edilizia poiché questo
prodotto, unito alle masse di sigillatura dei giunti, aumentava
l'elasticità dei giunti di dilatazione e di raccordo per porte e
finestre. In onore al principio del "tanto più, tanto meglio",
talvolta in cantiere si aggiungeva altro PCB alle masse di sigillatura che
già ne contenevano. Solo il prezzo dei PCB ha limitato queste pratiche,
poiché i giunti con PCB erano considerati giunti di lusso a elasticità
permanente e avevano il loro prezzo. L'affinità chimica di questi
composti con i grassi è responsabile del suo enorme tasso di
accumulazione e bioconcentrazione, così come della sua espansione
attraverso la catena alimentare marina nel nord del mondo. Il baccalà
artico, per esempio, presenta concentrazioni di PCB 48 milioni di volte
maggiori di quelle dell'acqua in cui vive, e i mammiferi predatori, come
l'orso polare, possono presentare concentrazioni che superano di 50 volte
quelle del baccalà.
Arrivano i batteri che divorano i PCB
Mediante un enzima, questi prodotti chimici altamente tossici possono
essere 'digeriti' e quindi modificati nella loro struttura che viene
trasformata in molecole più piccole e meno pericolose. Arrivano i batteri
mangia Pcb, capaci cioè di degradare una delle sostanze più tossiche,
diffuse e persistenti nell'ambiente. Il loro segreto è un enzima, che
promette di trasformarli in una delle strategie più avanzate di bonifica
ambientale. La ricerca, pubblicata nel numero di dicembre della rivista
Nature Structural Biology e condotta in Canada, nell'università della
British Columbia, apre definitivamente la strada alla possibilità di
utilizzare i batteri mangia-Pcb. Questa tecnologia era infatti ostacolata,
finora, dalla resistenza di alcuni Pcb (Policrorurati bifenili), che in
nessun modo l'enzima riusciva a degradare.
Adesso i ricercatori canadesi hanno scoperto il tallone d'Achille
dell'enzima nella sua struttura: modificandola, diventerà possibile
degradare anche i composti inquinanti più resistenti. Una volta
introdotto nei batteri, l'enzima capace di degradare i Pcb li rende capaci
di 'digerire' questi composti a base di cloro dall'aspetto liquido,
incolori e resistenti al fuoco. Una volta digeriti, li trasformano in
molecole molto più piccole e molto meno pericolose.
Estremamente stabili e persistenti, con le tecnologie attuali i Pcb
possono essere distrutti soltanto in speciali inceneritori ad altissime
temperature. Se non vengono bruciati in modo corretto, le ceneri risultano
contaminate da diossina e altre sostanze nocive.
Fonti di informazione:
Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità, Roma (ISS)
ufficio.stampa@iss.it
Ufficio federale della sanità pubblica, Berna
BAG-CHEM@bag.admin.ch |
Finestra
sulla memoria 1
Di Agostino
C'è un nome, Giuseppe Pinelli, capace di fare ombra a distanza di
trentacinque anni, un'ombra oltraggiosa per chi si apprestava a mettere in
atto la strategia della tensione. PRECIPITATO, VOLATO, ASSASSINATO,
UCCISO.. di certo portato vivo in questura a Milano il 12 dicembre 1969,
morto nella questura la notte del 15.
Potrei ricostruire il quadro politico, ricordare come il monopolio della
Democrazia Cristiana si stava sgretolando, della funesta strategia della
tensione inaugurata con i 16 morti nella Banca dell'Agricoltura di Piazza
Fontana, del tentativo di criminalizzare il movimento anarchico, dei
depistaggi attuati dai servizi segreti italiani, della CIA.., ma vorrei
ricordare la morte di Pino. La sua morte ha mostrato a me quattordicenne i
denti metallici del tempo, del dominio; è come se con un respiro profondo
avessi assorbito un'idea rimasta ancora fuori, ma che non mi ha più
abbandonato, "non esistono poteri buoni". Da quel 15 dicembre
così come in queste sequenze, il ricordo di Pino Pinelli non dilegua
sotto il peso del tempo. |
Fulvio
Abbate
"Il ministro anarchico"
edizioni Baldini Castoldi Dalai - 2004 - pag. 179
Oibò! Un anarchico.. ministro?
Si chiedono i puri, ma si sa, c'è sempre qualcuno più puro che ti epura.
Comunque non uno solo, ma quattro ministri anarchici, in Spagna nel '37:
Federica Montseny, Juan Lopez, Juan Peirò e lui, il
"protagonista" Juan Garcia Oliver.
Ma lasciamo che sia il nostro uomo a rispondere: " può un
anarcosindacalista diventare ministro della giustizia? Si, se afferma la
necessità del diritto, l'abolizione delle carceri e delle catene.."
Retorica poetico-ministeriale?
Ancora lui: ".. in data 22 dicembre abbiamo emanato un decreto che
cancellava tutti i precedenti penali per reati commessi prima del 15
luglio 1936.." ed altro ancora, in quello che più che un romanzo, mi
pare ricerca storica meticolosa ed appassionato omaggio ad un uomo..
ministro o no.
Renato |
Gli
occhi di quella donna si fecero fessura nella mia memoria
Tu nell'altra vita sventolavi la nera bandiera sulla Senna, io scrissi
della tua miccia.
di
Ludovica
Un vocabolario quasi scomparso nei nostri fagocitanti tempi segnati da
venti furiosi e oscuri.
Eppure "si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli
di ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria
la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra
ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire" dice Oliver
Sacks.
E così di fronte al popolo dei senza memoria produrre ricordi a sé, di
sé, con gli altri diviene resistenza civile.
Ma chi è Memoria?
Il mito antico, ripreso da Esiodo nella Teogonia, racconta che le nove
Muse erano figlie di Zeus e Mnemosine.
Loro madre dunque Mnemosine che nel mito è la personificazione della
Memoria, essa a sua volta è figlia di Gea e Urano, la terra ed il cielo.
Le Muse presiedevano alle arti ma anche alla scienza dei numeri e degli
astri, dunque al pensiero in tutte le sue forme molteplici insegnando la
poesia, la storia, la pantomima, la musica, la danza, la lirica corale, la
tragedia, la commedia, l'astronomia.
Questa visione ci suggerisce che ogni facoltà d'arte e di scienza è
strettamente connessa alla memoria, ad un rammemorare lontani archetipi
radicati nel profondo e senza l'incontro tra cielo e terra agli uomini è
impossibile esprimersi.
Ancora attingiamo al sapere della Grecia antica. In una laminetta orfica,
trovata nella tomba di una giovinetta, si consiglia all'anima della
defunta di non accostarsi alla prima fonte che troverà, quella del fiume
Lete, o della dimenticanza, bensì alla seconda, che "scorre dalla
palude di Mnemosine". Per coloro che sovrintendevano ai riti
misterici la salvezza consisteva dunque nell'attingere alla memoria, nel
non dimenticare.
Ma oblio e memoria sono, per gli umani, inscindibili, avvinghiati.
Gettiamo uno sguardo al passato più e meno recente, non senza malinconia
e rabbia ci accorgiamo come l'oblio collettivo sovrasti il pensiero del
poter pensare ed interrogarci sugli eventi accaduti.
La dimenticanza plasma l'identità di un popolo, di un individuo così
come la memoria.
Il dimenticare ed il ricordare collettivo sono collocati in una struttura
di criteri del fare memoria o dell'obliare. Un popolo, un sistema sociale
costruiscono i propri luoghi, monumenti, occasioni, libri per alimentare
la memoria o la dimenticanza.
La memoria dunque è soggetta a manipolazione, "è un campo di
battaglia", e non dobbiamo pensare che essa sia semplicemente la
registrazione dell'avvenuto. Il passato che ricordiamo a livello
collettivo ed individuale è interpretazione di ciò che è avvenuto a
partire da un presente per delineare possibili futuri. Noi viviamo in un
presente tridimensionale: il presente del presente, il presente del
passato, in quanto ricordo, il presente del futuro in quanto aspettazione.
Non possiamo appiattire la nostra realtà in una prospettiva
bidimensionale tra presente e passato perché la dinamica è ben più
complessa. E se questo vale per il collettivo ancora di più per la
dimensione individuale. Esiste anche il rischio di un peso eccessivo della
memoria collettiva che attraverso apparati teatrali, mitologici e
retorici, crea nazionalismi e localismi, a noi purtroppo contemporanei,
alimentando false identità e norme sociali, che a forza di insistenze
politiche ed ideologiche diventano paradossalmente vere ed assunte dai
singoli individui.
Ma la memoria è anche identità, possibilità di riconoscimento a sé con
gli altri. Nel film Blade Runner ci sono dei replicanti assolutamente
simili agli uomini e vivono in mezzo a loro. I replicanti non sanno di
esseri tali. Quando ad una replicante donna si affaccia il dubbio sulla
propria natura, il dubbio che forse essa non è un essere umano, e quindi
si rende conto che nel suo cervello gli è stata inserita una memoria che
non è la memoria vera, nel momento in cui guarda alcune fotografie ella
non sa se i ricordi siano veri o falsi. Il dubbio che i ricordi siano
falsi le lacera l'anima, perché si rende conto di non poter avere
nostalgia del passato. Di non poter avere memoria e quindi identità. Se
non abbiamo memoria chi siamo?
Per me, Violeta, fatta di carne, cuore, pensiero, tempo e per te chiunque
altro tu sia, fatto di carne, cuore, pensiero, tempo, come ci gioca
Mnemosine?
La memoria, nel suo rapporto ambiguo e sfumato con l'oblio, si fa, nel
tempo, guardiana di fronte alla forza disgregatrice della dimenticanza
ritessendo i ricordi ci pone sulle tracce di quella storia che desideriamo
riconoscere quale nostra identità.
Ma sappiamo anche che i ricordi non sono stabili perché mutano nel tempo:
il mio presente di ora traduce un ricordo in modo diverso da quanto mi era
riconoscibile solo qualche anno prima. Eppure in questo impasto in
movimento ci aggrappiamo inconsciamente a un principio di immutabilità e
di fedeltà ai nostri ricordi sentendo l'inquietante sensazione che forse
la realtà è illusione. Nella paura di dimenticare o dove la memoria si
fa ipertrofica J.L. Borges ci racconta di Funés el memorioso che
ricordava: "tutti i tralci e gli acini di una pergola. Sapeva le
forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva
confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che
aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio
Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano
semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche…poteva
ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi
dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non
aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto una intera
giornata.
Mi disse: - Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti
tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo - . Anche disse: - I miei
sonni sono come la vostra veglia - . E anche: - La mia memoria, signore,
è come un deposito di rifiuti -".
Ma accanto all'oblio e all'eccesso di memoria ci chiediamo quale valore e
significato abbiano il ricordo ed in particolare l'autobiografia.
Autobiografia: autos - bio - graphein scrivere tracce di me in uno spazio.
Noi siamo individui da tempo immersi in una struttura sociale chirografica
e tipografica, nel senso che la parola scritta e stampata da tempo ha
modificato il nostro modo di pensare ed agire. Diverse le società ad
oralità primaria in cui la scrittura e la stampa, soprattutto, erano
inesistenti. Altri modi di pensiero, del fare memoria, altre metriche
narrative.
Dal suono - dall'orecchio - delle società ad oralità primaria siamo
passati alla visione - all'occhio - Le parole parlate, sonore, svaniscono
nell'attimo in cui vengono pronunciate, " il suono esiste solo
nell'attimo in cui sta morendo", la scrittura le imprigiona per
sempre in un campo visivo.
L'autobiografia è principalmente scrivere la propria storia. Guardarla
riflessa in uno spazio nel mentre innesca un processo autoformativo e
autotrasformativo, senza la necessità di "maestri":
un'autoanalisi per non pazienti, dice Duccio Demetrio.
Essa è un genere letterario antico: San Agostino, Michel de Montaigne con
i Saggi, J.J. Rousseau e ancora M. Proust con la Recherche. Ma prima
ancora si possono individuare tracce di pensiero autobiografico in Giulio
Cesare, Seneca, Cicerone. Gli studi intorno al pensiero autobiografico si
sono sviluppati soprattutto in ambito filosofico e pedagogico sino ai
nostri giorni. Per chi si occupa di autobiografia gli orizzonti di senso
li ritrova soprattutto nel pensiero dell'esistenzialismo e del
costruttivismo vale a dire che l'approccio autobiografico richiama
innanzitutto l'esigenza di conferire legittimità scientifica alla
soggettività, all'io, all'esser - ci heideggeriano.
Dunque nel pensiero e nello spazio di un foglio ancora bianco da segnare
con grafia entra l'Io, che senza false umiltà si fa tessitore delle
molteplici identità che ci appartengono e che riscopriamo lasciandoci
scivolare in uno stato consapevole di narcisismo buono, contravvenendo a
tutti quei saperi scientifici e morali che negano la validità di un
processo di conoscenza a partire dal sé.
Una forma di libertà inaspettata e di saperi si aprono a chiunque decide
di porre mano alla propria storia dolorosa, felice, noiosa, inquietante.
Elias Canetti si chiede "dovrei mettere i pensieri nella culla della
loro origine, perché appaiano più naturali. Può darsi che così io dia
loro un accento diverso. Non voglio correggere niente ma voglio recuperare
la vita che accompagna quei pensieri, richiamarla e farla rifluire in
essi."
Allora perché scriversi?
Sicuramente non per pubblicare un bel libro.La scrittura di sé è intima
o da scambiare con coloro che amiamo. Non è una bella vetrina in cui si
espone la propria storia "gloriosa".
Non è nemmeno uno psicofarmaco per scaricare i nostri ricordi o un
esercizio di bella scrittura romantica e nostalgica. No .
L'incontro con la propria autobiografia è l'inizio di un viaggio di presa
in carico di sé che inizia nel presente che abbiamo ricordato essere
tridimensionale. Per affrontarlo è necessario tradire quell' "Io
dominatore", che pretendendo di presiedere alla nostra coscienza ci
indicò sempre una ed una sola via identitaria. Riscopriremo un Io
tessitore composto di molteplici anime: amanti, traditrici, coraggiose,
impaurite, annoiate, inquiete, deliranti, savie. E tessendo i numerosi
fili che andremo a scoprire e a intrecciare ci inoltreremo nella ricerca
di quella cosa che vale la pena cercare: il senso, o meglio i molteplici
sensi della nostra esistenza, "l'enigma del vivere", che nello
stesso tempo non saranno mai raggiunti se non in ciò che ancora può
aggiungere senso.
Ma in questo tragitto l'autobiografo, in un movimento di distanziazione da
sé, perché quanto si scrive poi diviene ancora altro da noi, scopre un
sentimento di ricongiungimento dei molteplici Io che ha sperimentato
percependo una ulteriore coscienza che lo apre a nuove visioni o orizzonti
agibili o probabili.
Solo sperimentando cosa significa scrivere la propria storia, i propri
dilemmi, traversie, gioie, relazioni, impegni, scoraggiamenti ci si può
accostare, con rispetto, alle storie degli altri.
Da autobiografi ci si può dislocare nel ruolo di biografi: non per
raccogliere scoop giornalistici o sensazionali, ma perché ogni storia di
vita, e soprattutto di coloro che non hanno voce, vale la pena di essere
raccolta per restituirla in primordine al proprio autore che
reincontrandosi avrà l'opportunità di conoscere e pensarsi.
Anche per questa doppia identità il pensiero auto - bio - grafico è
divenuto un metodo di comprensione dei fenomeni e della realtà sociale.
È un fare ricerca che, nell'alveo delle scienze qualitative, produce
conoscenza a partire dalla riflessione sulla vita esperita dagli uomini
nei contesti abitativi, spaziali, temporali, culturali, relazionali. E non
si pensi che l'esercizio della conoscenza di sé valga solo per l'uomo o
la donna adulti, sempre che si lascino tentare da una immaturità che
produce ancora e ancora tasselli sconosciuti di sé.
Il pensiero autobiografico è percorribile in qualsiasi età della vita,
anche per le esistenze ancora vergini di tanti ricordi perché fanciulle.
Per loro, se fortunate ad incontrare adulti che le possano accompagnare in
questo viaggio, si può aprire "uno spazio di educazione
all'interiorità, al conoscere il mondo a partire da sé che sviluppa una
pratica alla consapevolezza dei propri desideri, pensieri e azioni. Uno
spazio che educa alla relazione sociale e alle responsabilità
comuni" (D.Demetrio).
Iniziare dunque a scrivere di sé preannuncia movimenti interni e
relazionali, impegno e coraggio, con me e con l'altro da me, complessi e
variegati e per questi temi non potendo, in questa sede, ampliare la
riflessione si rimanda ai numerosi studi e scritture consultando anche il
sito www.lua.it che contiene una approfondita bibliografia nella sezione
"lo scaffale dell'autobiografo".
E se non saremo noi a scrivere di noi, saremo fortunati se qualcuno
diverrà nostro biografo e se non sarà una persona lasciamo che sia il
vento, la luna, il regno dei ragni a farlo per noi come cantò Fabrizio de
Andrè "se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe, il
regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna, la luna tesserebbe i capelli
ed il viso e il polline di dio di dio il sorriso"
In qualsiasi luogo Violeta, ottobre 2004 |
LA
MEMORIA: CONSIDERAZIONI INATTUALI
di
V. Volpi
La facoltà di ricordare è fondamentale per la sopravvivenza umana: ci
serve per temere le scottature d'acqua calda, per esser prudenti quando
imbocchiamo una strada nuova, per dare una continuità al nostro passato,
per selezionare la tradizione, scegliendo quel che a nostro avviso vale la
pena di essere tramandato ai posteri.
È bene distinguere da subito fra memoria intenzionale, memoria di
intrattenimento e memoria documentale.
Per memoria intenzionale intendiamo l'attività annalistica,
memorialistica e storica. La memoria di intrattenimento coincide grosso
modo con quella letteraria (l'epica, il romanzo, l'autobiografia). La
memoria documentale è quella che si inferisce dai documenti, dagli
oggetti, dai manufatti, dagli atti ufficiali/efficaci (una sentenza, un
certificato) e dai monumenti.
A tutta prima la storiografia dovrebbe avere gli strumenti analitici e
critici per estrarre dalla memoria del passato un disegno fededegno di
quanto è avvenuto. Noi posteri, con il senno del poi, abbiamo elementi
per dubitare della pretesa veridicità della storia (scritta), vedendo
come l'atteggiamento soggettivo, le mode del tempo, le finalità stesse
dello "scriver la storia" influenzino la scrittura e tradiscano
la memoria. Il Bembo scisse su commissione, Hegel riconosceva uno
"spirito" nella storia, gli storici moderni sono spesso di parte
per il solo fatto di aver preliminarmente scelto un filtro di analisi e
una predeterminata consequenzialità causa-effetto da riconoscere negli
avvenimenti.
I letterati sono programmaticamente figli dell'invenzione, quand'anche
scelgano temi storici (epopea e romanzo storico), la materia storica
rappresenta solo l'abbrivo iniziale, il pretesto per render
"documentati" da gesti verisimili gli intenti ideologici della
scrittura: Achille e Renzo sono dunque "campioni" di riferimento
per una lettura e un disegno idealizzato della società. La mitologia
greca riteneva le arti figlie della Memoria (Mnemosyne).
Ad ognuna delle nove arti corrispondeva una musa (con una accezione
della parola arte che alludeva più all'abilità tecnico-artigianale di
elaborazione del prodotto. La musa della storiografia era Clio, il cui
nome richiama il kleos, la gloria, la memoria "scultorea"
dell'eroe tramandata alle generazioni a venire; un modo per vincere il
tempo, il divenire e la morte (basti accennare al discobolo di Mirone alle
Odi di Pindaro). Gli eroi fungevano da modello plastico per le nuove
generazioni: la memoria si trasformava allora in strumento di educazione
sociale, plasmando le nuove generazioni secondo lo stampo della
tradizione.
L'archeologia, ancorata com'è ai dati, ai reperti, sembra non disposta
a seguire indicazioni di percorsi esterni al reticolo di scavo. Ha bisogno
però di un contesto più vasto, per solito assente, entro il quale
collocare e render plausibili le proprie interpretazioni e cronologie. È
facile dunque per l'archeologo imporre sui dati stessi del proprio
reticolo la rete di conoscenze e deduzioni degli studi precedenti. Con un
interrogativo basilare e difficilmente eludibile della corrispondenza fra
"verità" dei dati e ipotesi interpretative. Il che fa della
ricostruzione della memoria in archeologia un campo di infinita
approssimazione e di certezze irraggiungibili. Il vocabolario
dell'archeologia si presenta dunque come perenne riscrittura, perché i
significati oggettivi e attribuibili sono in costante evoluzione.
La memoria intesa come ricordo dei fatti storici si presta a
falsificazioni, a interpretazioni mutevoli, a ideologizzazioni e
strumentalizzazioni. Psicologi e criminologi sono i primi a dubitare della
veridicità del ricordo raccontato dai propri pazienti e testimoni:
dall'esperienza tragGono ogni giorno conferme che la memoria come facoltà
è spesso dominata e indirizzata dall'emotività, che non equivale alla
registrazione pura e semplice dei fatti, ma quei fatti sono continuamente
variati ad ogni narrazione, fino a raggiungere un livello di
standardizzazione, dopo il quale non è più possibile modificare
"né uno iota né un apice". (usare altri termini.. si può!, si
deve)
Si producono così nuove mitologie (con varianti plurivoche e diverse
spiegazioni dei medesimi fatti). La citazione di un fatto storico diventa
spesso espediente strumentale di una argomentazione: si ricerca allora nel
fatto storico (visto da una angolatura di parte) la conferma d'autorità
per una deduzione azzardata). Altre volte l'interpretazione condivisa di
un medesimo fatto crea alleanze e fa comunità (Gesù si diede a conoscere
ai viandanti di Emmaus nell'atto di spezzare il pane: gesto che Egli
stesso aveva istituito perché i Cristiani si ricordassero di Lui
"fate questo in memoria di me"), divide la società in gruppi a
secondo delle opinioni, e per la sopravvivenza del gruppo si estremizza
una determinata visione dei fatti e la "memoria" di essi
equivale di per sé ad adesione ideologica, a scelta di campo.
La memoria è dolore, "ovunque la tocchi, sanguina". La
memoria come rimedio e farmaco contro l'edacità (?) del tempo, è in
grado di riportare al presente il passato, con intera la sua carica
emotiva e vitale. Così che la "memoria" continuamente ci
ammonisce che non sempre il passato può essere cancellato, che spesso
questo passato non è ancora definitivamente passato.
La memoria è rifugio quando il presente non offre nulla di memorabile,
nulla che valga la pena di esser tramandato, che valga a far degna, che
valga a innervare e dar senso alla vita presente. Ed è ancora la memoria
che da una parte inconsciamente ci fa continuamente ripetere i medesimi
sbagli, quasi a volerci confermare nella nostra continua identità, e
dall'altra ci fa diffidare dalle imitazioni, volendo legittimamente
aspirare alla novità, al rinnovamento, alla legittimA aspirazione di
esser padroni della nostra vita e delle nostre scelte.
La memoria ci chiede dunque di essere all'altezza non solo del momento
presente, non solo svegli e prudenti verso il futuro, ma anche in continuo
dialogo col senso dei fatti stessi che essa preserva, e che muta col
passare stesso del tempo e col mutare di noi. |
LA
MEMORIA
Quando, nel marzo del 1995, abbiamo incominciato, seduti a un tavolo di
cucina, a intervistare Sandro Costantini, eravamo certi di incontrare una
persona che aveva dietro di sé una vita molto particolare. Sandro, che
era nato a Brescia nel 1930, è stato uno dei maggiori burattinai
italiani. Noi avevamo visto i suoi ultimi spettacoli e condiviso l'ultima
parte della sua attività che, al momento delle interviste, era sospesa a
causa di una malattia. La decisione di fermare in un racconto i suoi
ricordi era nata dalla percezione che la sua esistenza racchiudesse
esperienze e pensieri che non avevano più una casa e che la sua arte non
avesse più una piazza e una baracca dove esprimersi. La storia di Sandro
non solo era la storia sorprendente di un uomo e di un artista ma era la
storia di un periodo ormai concluso, di luoghi, piazze, osterie che ora
avevano cambiato fisionomia, di gente che ora faceva altro.
L'esperienza di quelle interviste ci ha permesso di conoscere
"dall'interno" un genere artistico, il teatro dei burattini,
assai più complesso e vivace di quanto oggi si creda, e stretto in un
rapporto quasi amniotico con i luoghi dove gli spettacoli venivano
rappresentati. Sandro era figlio di Amedeo Costantini, che dal teatro di
prosa si trovò, subito dopo la seconda guerra mondiale, a dover
riconvertire la sua arte nel teatro dei burattini, di cui sarebbe stato,
fino alla sua morte, uno dei principali protagonisti. È una scelta che lo
porta, insieme al figlio, a cercare di impadronirsi delle nuove tecniche
attraverso le proprie competenze di attore, a esplorare il passaggio
dall'energia del suo corpo a quella del burattino infilato sulla mano.
Questa piccola famiglia di teatranti girovaghi, senza maestri
riconosciuti, si appropria dunque, attraverso un duro lavoro di prove e
studi sul campo, dell'arte del teatro d'animazione. Nonostante le
difficoltà economiche, la povertà e gli stenti (Amedeo faceva il
narratore nelle stalle in cambio di cibo, portava il tiro a segno nelle
fiere…), la passione per il teatro li spinge a percorrere per anni la
provincia bresciana: a lungo con carretto e cavalli, poi con un camioncino
e un capannone progettato dallo stesso Sandro. Dal cui racconto emerge con
vivace evidenza l'atmosfera degli inizi: le piazze piene di gente (ignara
di televisioni e cinematografi) che partecipa ai grandi drammi
interloquendo con i burattini e animandosi alle loro vicende, che discute
delle tragedie del vivere scambiandosi impressioni, pensieri,
indignazioni. Molti copioni, poco più che canovacci scritti a mano su
semplici quaderni di scuola, riportano vicende di cronaca più o meno
recenti, i cui protagonisti (il più celebre: il brigante Musolino)
divengono sulla scena paladini della giustizia finiti negli ingranaggi di
un sistema troppo sensibile ai privilegi; ci sono poi i piccoli drammi
della povertà incontrati da un Gioppino che divideva con le sue bastonate
buoni e cattivi, potenti e umili. I cortili delle osterie si riempivano
tanto di grida di sdegno ai soprusi, quanto di risate alle farse comiche
di un Gioppino illetterato e scansafatiche.
Nel frattempo c'era l'enorme fatica del campare, del montare e smontare la
baracca. L'arte cresceva nell'imparare da soli i tempi delle entrate in
scena, i toni dei personaggi, il ritmo dei movimenti. Niente a che fare
con le scuole di teatro, solo il pubblico di fronte a confermare o
condannare un'intuizione tecnica, una nuova trovata comica.
Un lavoro complesso, a pieno titolo di grande livello artistico, del cui
valore lo stesso Costantini si mostrava consapevole, anche se il suo
orgoglio professionale si stemperava facilmente nell'ironia. Non riusciva,
però, a non appassionarsi rievocando i luoghi, le tecniche, i gesti
quotidiani, le storie inscenate e il significato che assumevano per chi le
interpretava. Allora, la sua narrazione - in genere piuttosto avara di
parole - poteva distendersi in lunghi monologhi, scanditi con quei moti
lenti e coinvolgenti, quell'ipnotica essenzialità di gesti che ha
caratterizzato anche la sua arte di maestro burattinaio: "uno stile
particolare - scrive Remo Melloni, studioso del teatro di animazione,
nell'introduzione al libro - dove gesto e ritmo sono squisitamente
simbolici, non realistici".
La narrazione si prolunga poi alla grave e irreversibile crisi che, a
partire dagli anni '60, farà sì che quello dei burattini, da teatro per
adulti qual era, si trasformi in un teatro solo per bambini: senza drammi
epocali, senza copioni scomodi, proposto sempre di più nei teatri e
sempre meno nei cortili, una storia di cui si sta perdendo traccia e
memoria. Sandro otterrà, comunque, a partire da questo periodo alcuni
meritati riconoscimenti: un Oscar come migliore burattinaio italiano, le
rappresentazioni al Piccolo di Milano, la stima degli altri burattinai. Ma
siamo ormai in piccole riserve indiane, la gran parte della gente ricorda
con affetto le burattinate come storie d'altri tempi, le istituzioni le
relegano spesso in dovuti momenti di folklore locale.
Dopo gli anni '60, Sandro per vivere trova lavoro alle onoranze funebri,
con a casa i burattini pronti nel carrello per qualche spettacolo.
Fissando la sua storia, ci si è chiarito quanto in quei burattini
continuassero a sopravvivere, silenti, un'arte teatrale preziosa, complice
di un'irriverenza popolare e di un'umanità ormai dimenticate, una
competenza artistica e uno spaccato narrativo che molto hanno ancora da
dire alla nostra modernità e alle nostre piazze vuote.
Vania Giacomelli e Nicola Rocchi
Sandro Costantini
Vita, spettacoli e incontri di un maestro burattinaio (1930-1997)
a cura di Vania Giacomelli e Nicola Rocchi
edito da Fondazione Civiltà Bresciana - Cooperativa Teatro Laboratorio
prezzo euro. 12,00 |
LA MEMORIA NEL
RICORDO: UNA PRATICA QUOTIDIANA
Massimo Morelli
Ricercare, documentare e raccontare la Memoria delle convivenze umane,
come ricchezza e significato del loro modo di essere e come valore che non
lacera, ma lega il passato al presente e dà significato al futuro.
Questo contenuto non richiama tanto indagini di esperti, quanto
piuttosto la ricerca e l'ascolto della Memoria presente nelle persone
reali e nelle identità collettive.
"…Oggi le nostre scelte sono difficili, ma una di esse è
sicura, ed è quella che dobbiamo vivere in un mondo di uomini, diversi
nella civiltà (o nel grado delle conoscenze), ma egualmente uomini nella
loro anima e nel loro corpo…".
Il rapporto che si instaura con l'ambiente nel quale viviamo, spesso è
di tipo strumentale e provvisorio. Spesso si esaurisce all'interno delle
pareti di casa, che rappresentano la sicurezza e la propria identità:
quella di un piccolo nucleo avulso da una realtà circostante non sempre
chiara, o che si trasforma senza possibilità di comprensione da parte
delle persone, delle singole famiglie.
Le profonde trasformazioni economiche e sociali tendono a scardinare le
strutture associative e personali. Solo poco tempo fa, un'intensa vita di
relazioni quotidiane, di naturali momenti associativi ed organizzativi
delle persone, rendevano possibile una comunicazione e una conoscenza
reciproca, tale da permettere la costituzione di un'identità collettiva,
una Memoria Comune. L'organizzazione del ricordo e della conoscenza (anche
del passato), ha permesso di agire nei confronti del territorio e
dell'ambiente circostante, in modo da adattarlo alle reali esigenze degli
abitanti. Di fronte al crollo di questo rapporto con la realtà e con gli
altri (disgregazione delle socialità), pensare di lavorare alla
ricostruzione di una Memoria Collettiva di una comunità, è un tentativo
ad alto rischio (di presunzione), ma necessario. Un patrimonio di
emozioni, di semplici, ma significativi avvenimenti può diventare,
attraverso la Memoria Comune, sentimento e riflessione collettiva e quindi
processo di crescita culturale, fondamento indispensabile per affrontare
quelle fasi di trasformazione sociale, che il progresso inevitabilmente
impone.
L'attuale sviluppo dei mezzi d'informazione non favorisce un approccio
diretto alla realtà: oggi è possibile sapere quasi tutto di ogni aspetto
di essa, senza osservarla direttamente. Questo avviene sia a livello della
gente comune, che vive prevalentemente una condizione di estraniamento dal
territorio e dagli altri, sia a livello di coloro, intellettuali ed
istituzioni, che svolgono il fondamentale compito, di fornire alla
società elaborazioni e proposte. Un certo numero di buone letture è
sufficiente a creare esperti riconosciuti: il sistema è rapido e offre
materiale già decantato, senza richiedere il prezzo di un'implicazione
emotiva e responsabile. Ciò nonostante, ogni giorno, le persone entrano
comunque in contatto con la realtà ma questo, sempre più spesso, sembra
avvenire quasi esclusivamente per le necessità materiali della
convivenza. Oppure, nel caso di coloro che istituzionalmente vengono
riconosciuti nel ruolo di osservatori delegati (giornalisti,
intellettuali, politici,...), prevalentemente attraverso modalità da
inviato speciale. La velocità è il tratto caratteristico. Velocità
nello scegliere e raggiungere l'ambito di indagine, velocità nel
raccogliere e ripartire: il criterio del successo è l'attualità.
Successivamente, velocità nell'accantonare: l'attualità è un prodotto
che si deteriora in fretta. Infine le ideologie: troppo spesso strumenti
limitanti d'osservazione, più che idealità di progetto umano. Così si
affronta la realtà, di prima o di seconda mano, con passo più sicuro:
più che sorprese, si cercano conferme.
A partire da questi presupposti, penso sia importante un semplice
lavoro di osservazione della realtà. Non nego il valore delle idee e
della comunicazione mediata, ma desidero anche ascoltare la Vita. Senza
fini immediati, in rapporto di alleanza e non di conflitto con il Tempo.
Ben disposto a non essere attuale, se questo è il prezzo per sfuggire
all'effimero. Paziente e disponibile, ma anche partecipe: vedere e nello
stesso tempo incontrare un dolore e una gioia. Laddove le persone entrano
in rapporto tra di loro, ipotizzare l'esistenza di un patrimonio di
riferimenti comuni, di una Memoria.
E' un discorso che riguarda più la sfera dei bisogni, che quella delle
idee. Se questa ipotesi dovesse rivelarsi infondata, sarei pronto a
riconoscerlo, fosse soltanto per sfuggire alla malinconia di avvenimenti,
che non possono diventare mai una storia.
Suggerisco infine, a chi fosse interessato, un primo elenco di punti da
considerare, per un proficuo avvio al lavoro di osservazione e
registrazione dell'esistente nella vita quotidiana:
1. Acquisizione di alcune conoscenze orientative: dati e informazioni
sulla struttura fisica, ambientale e umana del soggetto/oggetto della
nostra ricerca.
Su progetti di trasformazione (urbanistici e sociali)
Su momenti associativi (organizzati e spontanei)
Su residui di una Memoria Storica
2. Oggetto della Memoria: la vita del soggetto/oggetto della nostra
ricerca e in particolare la normalità del quotidiano come storia privata
di una comunità. L'attenzione a fatti e personaggi che, normalmente, non
vengono registrati dalla comunicazione ufficiale, se non quando, per
avventura o accidente, assumono valore di eccezionalità o
spettacolarità.
3. Responsabili della registrazione: tutti coloro che considerano come un
interesse (e come un dovere), osservare e riflettere sulla propria
realtà. Unica e necessaria distinzione: fra protagonista-testimone e
osservatore esterno.
4. Come registrare il quotidiano: convivendoci, ciascuno con le proprie
sensibilità e attenzioni, fissando o indicando tutto ciò che giudicherà
interessante e utile da Ritenere a Memoria.
Importante: la libertà da ogni pregiudizio.
5. I mezzi della registrazione: senza trascurare le forme tradizionali
(scrittura, fotografia,…), è evidente la completezza ed efficacia del
mezzo audiovisivo.
6. Archivio: catalogazione e suddivisione delle registrazioni per ogni
possibile utilizzo (scientifico, artistico, poetico,…). Più il dato
sarà autentico e più risulterà completo e quindi utilizzabile per
diverse specificità.
7. Punto di riferimento operativo per l'osservazione e registrazione: la
Postazione. Alcuni significati del termine Postazione: luogo per trovarsi,
per sostare, per porsi in agguato, per fermarsi ad aspettare…
8. Tempo dell'esperienza: illimitato. L'opera di Memorizzazione, che
abbiamo intrapreso, è un impegno che non lavora su scadenze di Tempo, è
un raccogliere senza fretta e senza urgenza perché gli scopi non sono né
l'archiviazione in sé stessa, né la confezione di prodotti, ma anzi
tutto la comprensione e la comunicazione. |
Teatro
"Lucia" - Botticino
Venerdì 17 Dic. ore 21.00
MONO LOCO
UNO SPETTACOLO TEATRALE
È la storia di un uomo realmente esistito.
Quando? Come si chiama?
Di un uomo simile ad un altro più conosciuto.
Chi?
È sempre lo stesso uomo, appare tra le ombre e i bisogni di tanti.
Dove è successo?
A me piace ricordarlo come capace di imprese impossibili, sconosciute e
folli. In grado di raccontarci di sé, non per autocelebrarsi, ma perché,
anche lui, figlio di una memoria.
Un eroe? Un divo? Un pagliaccio?
No, semplicemente un uomo... chiedetelo alla sua donna.
Quale donna?
di Fabio Maccarinelli, Giacomo Gamba
con Maurizia Ragazzini, Davide Fumagalli, Lilith Malatesta
regia: Fabio Maccarinelli, Giacomo Gamba
scenografia: Alice Schivardi |
UN
BEL BAGNO NEL MELLA: UTOPIA?
Si può dire che c'è un fiume a Brescia? Sì, nonostante il Mella sia
oggi la fogna della Val Trompia, è in effetti un fiume.
È evidente che molti cittadini potrebbero rispondere negativamente,
ritenendo che ormai non c'è più un corso d'acqua in città e che perciò
è realistico rassegnarsi alla sua perdita.
In effetti, è diffusa la convinzione che si possa benissimo vivere anche
così.
È abbastanza scontato che un ambientalista proponga che un fiume e i suoi
dintorni diventino un parco naturale, anche se il parco del Mella a
Brescia di fatto c'è già ed è in via di miglioramento (piste ciclabili,
aree verdi ecc.).
Il parco c'è, è vero, ma se analizziamo la qualità delle acque del
fiume (l'unico aspetto di reale rilevanza ecologica), costatiamo purtroppo
che le acque del Mella permettono l'insediamento di pochissime specie
viventi, capaci di sopportare condizioni chimiche e biologiche
estremamente difficili.
Il problema è che frequentemente si sente parlare di bei paesaggi, ma
meno frequentemente si conosce la vera misura dell'eccellenza di un
ambiente naturale: la biodiversità.
Il Mella a Brescia versa in una situazione pessima, le sue acque sono
inospitali per la maggior parte degli animali che si trovano in fiumi
analoghi in buona salute. Se gli ambientalisti dovessero scegliere un
animale da proteggere nel fiume di casa, il "panda" del Mella,
dovrebbero scegliere la larva del plecottero, l'insetto più esigente, da
tempo completamente scomparso.
Tornando al cittadino rassegnato e senza speranza, dobbiamo però ancora
rispondere alla domanda centrale: perché preoccuparsi tanto di un fiume
così secondario, anche se fosse pulito, cosa ne potremmo fare? Potemmo
ipotizzare di irrigare e abbeverarci con le acque del Mella, di pescare o
farci il bagno? In realtà questi non sarebbero usi
"alternativi" a quelli attuali, perché essi sono esattamente
gli scopi per i quali oggi si usano le acque del Mella.
In questo momento, probabilmente, qualcuno sta bevendo l'acqua del Mella a
Ferrara o nel Polesine o in qualsiasi altro luogo dove si utilizzi il Po
come fonte d'acqua potabile. Sicuramente si usa diffusamente quest'acqua
per irrigare i campi dove crescono i vegetali di cui noi stessi e gli
animali allevati ci nutriamo. Sappiamo che ci sono pescatori sulle rive
del Mella, ma il bagno? Ebbene, le pessime acque che scendono dalla Val
Trompia corrono inesorabilmente verso il Po e l'Adriatico, dove tutte le
estati milioni di bagnanti si divertono a nuotare (magari nei loro stessi
escrementi).
Insomma, il vero uso alternativo è precisamente quello che si fa anche
oggi: l'acqua è indispensabile, perciò si può soltanto scegliere se
continuare ad usarla in queste condizioni o decidersi a fare in fretta
quello che, anche la legge, oltre al buon senso, impone.
Queste perorazioni in favore del martoriato fiume non devono sembrare un
sogno irrealizzabile.
La soluzione è semplice, anche se sembra inattuabile.
Sia il Reno sia il Tamigi, invece, afflitti da problemi di ben più
complessa soluzione, sono stati parzialmente risanati negli ultimi dieci
anni. In particolare il Reno, lungo ben 1320 km, pur attraversando ben
cinque stati e la regione più industrializzata d'Europa, la Ruhr, ha
subito un'opera di risanamento che ha ridotto del 90% i metalli pesanti e
l'inquinamento. Il risultato più evidente è il ritorno di 40 delle 47
specie di pesci endemici presenti, oltre al salmone e allo storione.
Salvaguardia dell'acqua potabile, decontaminazione dei sedimenti,
ristabilimento di specie pregiate di pesci, protezione del mare,
rinaturalizzazione delle sponde: questi gli obiettivi.
E i plecotteri? Non dobbiamo preoccuparci perché dopo aver risanato le
acque, basteranno pochi mesi e questi simpatici animaletti torneranno
spontaneamente a colonizzare il Mella, indicando il ritorno di tutta la
comunità animale e della biodiversità che fa di un ambiente naturale un
vero parco.
Per renderci conto di quanto rapidamente la natura ripari i disastri
provocati da un uso dissennato del territorio, basta andare a visitare
un'area industriale dismessa e osservare alberi, erbe, muschi, animali
ecc. che invadono e sommergono monotoni capannoni, come la giungla ha
fatto con le città dei Maya. È sufficiente spendere poche decine di
milioni di euro per costruire un depuratore con le relative reti fognarie.
(circa un decimo di quanto preventivato per l'autostrada della Val
Trompia) perché tutto torni com'era nel passato: un compito davvero
facile e possibile. |
"Un
pezzo di storia"
Intervista
ad Ivan Guerrini direttore di "Seme Anarchico"
Di
Gamba/Cadei
Ivan Guerrini è "un pezzo di storia" dell'anarchismo
bresciano e italiano ed una miniera di ricordi. Gentile come sempre, Ivan
ci ha intrattenuti per ore raccontandoci la sua vita e rispondendo alle
nostre domande. Col materiale che abbiamo registrato si potrebbe scrivere
un libro di storia ricco di aneddoti e di vissuti. La difficoltà per noi
è stata scegliere cosa inserire nella brevità di un articolo di
giornale: la decisione finale è stata quella di focalizzarsi su quattro
episodi importanti della sua vita e della sua attività politica.
D) Allora Ivan, come sei arrivato all'anarchismo?
R) Il servizio militare. Nel 1944 sono stato trasferito a Bari, per
lavorare con gli americani. Nei pressi di quella stazione c'era una
edicola dove mi recavo per comperare il Grillo Parlante, un settimanale
satirico contro i politicanti. Un giorno l'edicolante mi propone Umanità
Nova che lessi senza coglierne il significato.
Cresciuto durante il fascismo, ignoravo la questione sociale, anche se nel
febbraio 1942, con una decina di giovani colleghi, scioperai per ottenere
un aumento di paga, perequato a quello delle ausiliarie che percepivano di
più, anche se facevano il nostro stesso lavoro.
Mio padre era anarchico, ma durante il fascismo non si manifestò, dovendo
lavorare per mantenere la famiglia con due figli a carico. Alcune volte
fece zittire mia madre, che non era anarchica, sorprendendola a cantare
motivi anarchici.
Finita la guerra girai le sedi di tutti i partiti ma ero considerato un
eretico, soprattutto dai comunisti a cui avevo detto: "parlate della
libertà ma poi dite bisogna fare questo, bisogna fare quello".
Successivamente conobbi Bonometti il calzolaio, vecchio anarchico, un tipo
tranquillo che mi diede degli opuscoli e me li spiegò.
D) Nel 1947, al congresso FAI, hai conosciuto Borghi. Nel 1950 hai
trovato in un magazzino comunale una lapide, votata dal consiglio comunale
di Brescia, dedicata al pedagogo razionalista Francisco Ferrer y Guardia,
fondatore della Escuela Moderna, fucilato su istigazione dei gesuiti in
Spagna e ti sei adoperato per esporla dove oggi è ancora, in via Sebino
40. Nel 1951 hai preso le prime manganellate dalla polizia. Poi si è
costituita la Federazione Anarchica Triveneta. Arriviamo al 1965, al
congresso FAI di Carrara e alla nascita dei GIA.
R) Bologna maggio 1965: durante un convegno precongressuale della FAI
ho assistito ad un attacco degli strutturatori contro Armando Borghi,
perché questi si opponeva a certe pretese politiche di coinvolgimento
della FAI.
Nell'ottobre/novembre 1965 ci fu un congresso della FAI a Carrara gestito
dagli strutturatori, i quali avevano preparato e distribuito ai
congressisti un documento che non trova il mio consenso. Alla pensione
Morgana, dove ero alloggiato, parlai con i compagni di Canosa di Puglia, e
con Michele Damiano presentando un documento alternativo a quello che gli
strutturatori stavano facendo votare a maggioranza (!) ai congressisti,
articolo per articolo.
Qualcuno degli strutturatori ridusse la sala ad un'incredibile bolgia
rissosa mentre il nostro documento venne messo agli atti.
Abbandonai il congresso e mi ritrovai in piazza con altri compagni, tra
cui gli Andreani che ci invitarono a casa loro, dove si decise
unanimamente di abbandonare il congresso con una nostra nota che il
compagno Sama si incaricò di far avere alla presidenza del congresso.
Altri gruppi e compagni si dichiararono d'accordo con noi e insieme
decidemmo di trovarci il 19 dicembre a Pisa dove costituimmo i
"Gruppi di Iniziativa Anarchica", senza imposizioni
strutturative e nella coerenza anarchica. I compagni di Venezia editeranno
un giornale, "L'Internazionale", mentre la Commissione di
Corrispondenza fu competenza del Gruppo Anarchico Bresciano fino alle mie
dimissioni.
D) I GIA, con il bollettino da te curato, dureranno fino al 1975.
R) Il 14 settembre 1975 i GIA indirono un convegno "Pro Vittime
Politiche" a Senigallia, per aiutare tutte le vittime politiche,
poiché la FAI e i GAF volevano aiutare chi volevano loro. Quattro
compagni proposero, per il pomeriggio, un "Congresso dei GIA".
Rimasi stupefatto e feci notare che un congresso va discusso prima e
dovrebbero essere tutti i compagni a deciderlo per affrontare i nostri
problemi. I quattro chiesero le mie dimissioni, a cui non mi opposi, avrei
solo diramato un ultimo Bollettino GIA per informare i compagni di quanto
accaduto. Parecchi compagni si dichiarano d'accordo con me e insieme
decidemmo di ritrovarci nel 1976 per lavorare autonomamente, e col
proposito di dar vita nuovamente al "Seme Anarchico".
D) Tu intanto cominci i tuoi viaggi "politici". Nel 1974 sei
in Messico con Ruju e nel 1977, sempre con Ruju e gli Andreani, in
Bulgaria dove incontri, clandestinamente, alcuni anarchici di quel paese.
Ma torniamo al Seme Anarchico: dal 1976 al 1980 produci
"L'informatore", ciclostilato diretto ai compagni interessati
alla rinascita dello storico giornale.
R) Sì, dal 1976 al 1979 ci ritroviamo al Circolo Bruno Filippi di Carrara
dove raccogliemmo i soldi per la stampa del giornale,a me affidarono la
redazione e la responsabilità legale del giornale. Nel febbraio del 1980
uscì il primo numero del nuovo Seme Anarchico mensile, diventato
successivamente trimestrale. Fino all'aprile 2004, tranne brevi
interruzioni, il Seme Anarchico è sempre uscito. Dal 1988 al 2002 nasce
l'inserto"Fuori" con scritti di autori inneggianti alla
libertà. Ora il Seme Anarchico è in una situazione di stallo.
Un saggio di storia dell'anarchismo bresciano e italiano.
E' stato piacevole anche il ricordare tanti altri vecchi anarchici, ne
riparleremo in futuro. Ancora un grazie a Ivan. |
VOCI
DI VALVESTINO di Grazia Maccarinelli
LE DONNE RACCONTANO…
Viaggio in un paese, la Valvestino, quasi ai confini del mondo, nelle
parole delle custodi della sua storia: le donne.
Sofia, Marta, Catina, Agnese, Maria.. Nomi diversi per indicare
un'unica condizione, quella femminile, tra lavoro, povertà, figli,
religione, mariti.
"Se dovessi sposarmi sposerei ancora lui, o meglio, non mi sposerei
affatto.."
"Eravamo bastonate dal lavoro.."
"Le donne in gravidanza lavoravano di più, perché si pensava che
avessero doppia forza.."
"Qualcosa ci era concesso: andare in pellegrinaggio."
Parole, frasi come queste ed altre ancora hanno dato vita all'onda dei
ricordi, hanno costruito la memoria comune di quelle donne che hanno
voluto affidare le loro voci a questo libro.
Si sono ritrovate, le donne di Valvestino, per pensare un poco al loro
passato, per ricreare le situazioni più incisive, per tirare alcune
somme, per sorridere, con pacata ironia, di situazioni talvolta tragiche.
"Oggi tutto è cambiato.. Ma io sto qui, tra le mie montagne tra la
mia gente, con i miei morti.."
Quasi immagini di una foto in bianco e nero, pur tuttavia scherzano;
consapevoli, oggi, di quanto sia stato duro costruire il percorso della
loro esistenza, quasi se ne stupiscono, tendono a minimizzare.
Sarebbero disposte a ricominciare, se necessario, ma ora tocca agli altri,
"la vita è una ruota".
E ti parlano con fierezza, con orgoglio; i loro occhi guardano lontano e,
affidandoti il loro ricordo, ti regalano un po' della loro forza e del
loro amore.
Viaggiare con loro è stata un'esperienza indimenticabile.
Voci di Valvestino
Le donne raccontano…
Di Grazia Maccarinelli
Biblioteca comunale di Valvestino e Magasa |
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