sabato 13 marzo 2004

Direzione, redazione, amministrazione, tipografia in Vicolo Borgondio n. 6 - Brescia - Cicl. in proprio. A sottoscrizione - 

Articoli e fotografie non verranno rispediti, ma potranno essere ritirati presso la sede tutti i giovedì dopo le 21.00

ATTUALITÀ

MUMBAI: DALIT SOCIAL FORUM

Testi e fotografie di. Giovanni Arici

Nel mese di gennaio di quest’anno, dal 16 al 21, a Mumbai (Bombai), in India si è tenuto il quarto appuntamento mondiale del Social Forum, (i precedenti appuntamenti si tennero a Porto Alegre in Brasile). Senza tediarvi con le solite cifre delle delegazioni o dei convenuti da ogni parte del mondo, che sono stati veramente tanti, posso dirvi che davanti a me sono sfilati tutti i movimenti altermondialisti della terra.

 Davanti ai miei occhi sono scorsi centinaia di manifestazioni a volte composte solamente da tre o quattro persone altre da alcune centinaia che hanno denunciato a turno i problemi che affliggono il loro paese. I cinesi hanno raccolto le firme per condannare il Dalai Lama cinese voluto dal governo per soffocare quello ufficiale del Tibet.

A fianco della delegazione antinucleare di Matera (che ha presentato un video sulla vicenda di Scanzano), c’erano i rappresentanti di Joar, un movimento dell’India nordorientale antiradiazioni.

C’erano i contadini della valle di Narmanda scacciati dai loro villaggi per fare posto alla costruzione delle grandi dighe; dal dopoguerra ad oggi sono 33 i milioni di sfollati e se protestano la polizia manganella e spara. Il movimento iraniano contro il potere del patriarcato dice che nel loro paese le donne istruite devono farsi da parte perché i posti di rilievo spettano agli uomini. I sudcoreani fanno campagna per legalizzare i lavoratori immigrati: senza diritti di cittadinanza, nel mondo globale si stanno moltiplicando le “caste” escluse.

Davanti ai miei occhi si sfogliava un atlante mondiale di usi e costumi di tutti i popoli della Terra. Ogni volta che si riunisce un social forum, sia mondiale sia locale, assistiamo ad un evento che non ha precedenti. L’apporto di informazioni è straordinario, quasi fosse un cantiere anzi, è un cantiere. Un gigantesca impalcatura che già palesa le dimensioni dell’edificio che si vuole costruire.

Vorrei però sottolineare il carattere specifico di questo appuntamento. Il Forum (come potete leggere dal titolo), nasce nel nome dei mitici “intoccabili” i senza casta, i Dalit appunto. La gente più povera fra i poveri. Quelli che, abbandonate le terre perchè sterili, perchè sopraggiunta la stagione secca, o ben più tragicamente perché inondate per un programma governativo di canalizzazione dell’acqua, hanno cercato un rifugio nelle gradi città.

Sopravvivono frugando tra i rifiuti abbandonati sui binari delle stazioni o raccattando sui vagoni qualche pezzo di ciapati (pane indiano), un biscotto o una lattina vuota per riciclare l’alluminio. Vivono con poche rupie al giorno, trenta/quaranta; (al cambio ufficiale un euro è acquistato per cinquantacinque rupie). I più fortunati trovano lavoro come manovali nei cantieri e per loro la paga di cento/centocinquanta rupie al giorno è una fortuna, riescono a sfamare la loro famiglia, ma vivono sotto le tende lercie e impolverate che montano vicino ai posti di lavoro.

-Da un articolo di Marinella Correggia apparso sul manifesto del 22 gennaio: Anjela abita in una tenda di plastica di fronte al cancello del Wsf, sul terrapieno al centro della trafficatissima Western Highway, ma non è una mendicante né lo sono gli altri occupanti di quella fila di miseria, sono stagionali del Tamil Nadu, nella lunga stagione secca si offrono a fare i manovali; con i monsoni tornano al villaggio e coltivano. Mentre raccoglie gli sterpi per il fuoco “da campo” Anjela vede scorrere folle di delegati, ma non sa nulla di quella fiera, Anjela e gli altri sono stati ingaggiati per pulire il terreno del Wsf-.

Il quarto forum mondiale porta il loro nome ma loro non ci sono. Hanno creato una loro organizzazione e questo è il segnale che il movimento antiliberista ha posato un altro mattone nella costruzione di un nuovo mondo, ma dentro alla spianata che ospita il forum, una fabbrica di macchinari tessili in disuso dagli anni ottanta, loro i più poveri della terra ancora una volta devono raccattare l’immondizia che le centinaia di migliaia di persone abbandonano sui viali, nei capannoni o sulle aiuole.

Dall’altra parte della Western Highway la risposta al Wsf, il “Mumbai Resistance” fatto di centinaia di contadini del Karnakata i primi  a protestare contro la politica anti comunitaria che, sovvenzionando le esportazioni, danneggia la produzione locale. Il Krss (movimento dei contadini del Karnakata),  sta col Mumbai resistance, a capo del movimento c’è un socialista gandhiano e pratica disobbedienza civile contro le multinazionali danneggiando le cose, ad esempio i computer degli uffici della Monsanto.

Per molti di loro il punto di riferimento è la Lunga marcia iniziata da Mao e non ancora conclusa.

-Da un articolo di Meena Dessai apparso sul manifesto del 21 gennaio-. Quindi perchè impegnare tante energie per organizzare un forum alternativo? “Perché era giusto smascherare la natura socialdemocratica e superflua di eventi come il Forum sociale: smascherare l’immanenza implicita nella nozione di “società civile”, che annulla quella ben più produttiva di “lotta fra le classi”, in India oltretutto fra caste; denunciare il ruolo di cooptazione, di palliativo, se non di aperta corruzione, delle troppe Ong, che di fatto espropriano il movimento dei suoi obiettivi e strumenti di lotta [...]. Qual’è dunque il disegno - chiedo ancora a Sai baba? - Un disegno c’è e certo non siamo qui per discutere coi media. Ma dal Nepal a tutto il nord dell’India la militanza armata sta crescendo: In Andhra Pradesh altrettanto... Recentemente è stato grazie a molti nostri compagni se un progetto di miniera di uranio a Nalgonda è stato congelato, speriamo per sempre-.

Ma non mancano le polemiche anche da parte di chi ha sempre seguito e lavorato a fianco del movimento; Vandana Shiva, da sempre impegnata nei problemi mondiali legati all’acqua, vorrebbe che si ponesse più attenzione ai problemi dei contadini indiani e un pò meno ai diritti universali. Riccardo Petrella del Consiglio internazionale (promotore dei forum mondiali insieme a Walden Bello), sostiene che bisognerebbe abbandonare l’idea dei forum mondiali sempre più oceanici in favore di forum tematici meno numerosi ma più approfonditi. Dal nostro punto di vista auspichiamo che il quinto Forum mondiale abbia un inizio, ma non abbia una fine.

CONTRATTO DA QUATTRO SOLDI

Marie Claire

Dopo lo sciopero del 30 gennaio scorso, indetto dal sindacalismo di base degli autoferrotranvieri, credo sia utile analizzare un percorso di lotte che sicuramente sarà ricordato a lungo, indipendentemente dai risultati che produrrà. La storia è nota. Gli autoferrotranvieri di Milano, esasperati dal mancato rinnovo contrattuale, dopo una inutile serie di scioperi rispettosi delle norme di legge, tra dicembre e gennaio danno il via a scioperi, subito estesi a tutta Italia, improvvisi e senza fasce orarie garantite. È utile ricordare che con la legge 146 del 1990 in Italia si è iniziato a regolamentare il diritto di sciopero in quelli che vengono identificati come servizi essenziali e nel 2000 la legge è stata resa ancor più rigida. Ecco che dopo più di dieci anni di patto tra sindacati di stato, padroni e la burocrazia statuale (la famosa concertazione), esplode in Italia la rabbia dei lavoratori, i quali da due anni scioperavano senza riuscire a firmare un contratto con aumenti salariali. Va detto che i 106 euro richiesti non sono certo richieste di forti aumenti salariali, ma sostanzialmente in linea con la moderazione salariale dei sindacati di stato. Incalzati dagli eventi, cgil-cisl-uil si sono subito prodigate a firmare un contratto al ribasso di poco più di 80 euro. Contratto che i lavoratori, scioperando in tutta Italia, hanno nei fatti sconfessato.

Durante queste lotte tra i lavoratori prende corpo un coordinamento nazionale che comprende i sindacati di base presenti in categoria e da gruppi di lavoratori autorganizzati. L’aperta sconfessione dell’accordo porta cgil-cisl-uil a siglare accordi integrativi a Milano ed in altre città cercando così di rompere il fronte della protesta. Lo sciopero del 30 gennaio è la risposta del coordinamento nazionale. Non si hanno dati precisi sulla riuscita di questo sciopero. Infatti al di là dei comunicati che parlavano di una massiccia adesione va detto che nelle città in cui sono stati siglati contratti integrativi lo sciopero non ha avuto la massiccia adesione che ci si aspettava. Non solo, ma ha reso evidente che il coordinamento nazionale non ha la forza di riaprire un contratto nazionale ormai siglato o di contrastare accordi integrativi che per pochi euro accettano nuove forme di flessibilità. È ben vero che questa ondata di scioperi spontanei ha permesso al sindacalismo di base di rafforzarsi e di crescere, ma di per sé questo non cambia i rapporti di forza all’interno della categoria. Questo ci dice tra le righe il documento approvato all’assemblea nazionale del coordinamento perché nessuno vuole più riaprire il contratto, ma si demanda ad una piattaforma alternativa nel prossimo. Mentre oggi, fine di febbraio, si hanno le prime avvisaglie delle denunce e delle contestazioni ai lavoratori che hanno osato scioperare, senza chiedere né permesso né come alle burocrazie sindacali o allo stato.

È evidente che i due mesi (dicembre/gennaio), di lotte degli autoferrotranvieri possono essere un esempio, con luci ed ombre, per tutti quei lavoratori limitati dalla legge nel loro diritto di sciopero. Queste lotte vanno inoltre viste al di là della loro mera cronologia, ma credo vadano analizzate anche le motivazioni e le conseguenze di questi due mesi. L’evidenza di una sconfitta, seppur onorevole, ci deve far fare alcune considerazioni. La prima è che queste lotte, pur nella loro asprezza, si sono rivelate pure lotte economiche per pochi euro. Qui appare il limite del sindacalismo di base incapace di trasformare un lotta salariale in lotta politica che “riconquisti il diritto a scioperare”. Gli scioperi selvaggi hanno portato, è vero, a raggiungere i 106 euro, ma questo solo in poche città, mostrando inoltre la disponibilità a nuove flessibilità per quattro soldi. Pochi contratti integrativi hanno rotto la compattezza dei lavoratori. Questo è il prezzo che si paga nelle lotte ne in cui centrale è solo il salario. Spostare lo sciopero degli autoferrotranvieri da uno sciopero meramente economico ad uno sciopero politico, coinvolgendo le altre categorie di lavoratori limitati nei loro diritti/strumenti, era forse una limpida possibilità di rompere la legge sul diritto allo sciopero. I lavoratori mostravano ancora una volta che lo sciopero non è una bella festa, ma deve fare molto male alla controparte. Lo sciopero ci ha mostrato tutti i limiti che ingabbiano i lavoratori nella difesa dei propri diritti. E se non ha portato a grandi vittorie ci ha però dato la consapevolezza che la strada delle conquiste non può che passare attraverso la rottura della legge.

Non è certo la battaglia economica, pur nella sua importanza, che può modificare incisività delle lotte dei lavoratori. Rivolte sindacali che finiscono in pochi euro e non per tutti, denunce e sanzioni mostrano tutto il loro limite se non vengono trasformate in lotte politiche per la libertà di sciopero. Che senso hanno questi scioperi anestetizzati, che non fanno male a nessuno. Salari da fame e nessuno una possibilità di scioperi reali, tutto in nome di una astratta collettività. Poi leggiamo sul giornale che durante gli scioperi improvvisi i primi a lamentare danni sono stati i padroni per la produzione persa. Ovviamente i lavoratori si troveranno ancora con lo stesso problema. Per cui se si vuole firmare un contratto che garantisca salari decenti e che metta in discussione precariato e flessibilità non si può certo rimanere all’interno delle norme, le quali rendono lo sciopero costoso solo ai lavoratori e per nulla incisivo verso la controparte.

La stessa volontà del sindacalismo di base di mantenere gli scioperi all’interno delle leggi è un passo indietro rispetto alle lotte spontanee dei lavoratori e riporta un evidente scontro di classe alle pastoie concertative volute dai sindacati di stato. Ancora una volta le scelte dei lavoratori sono annacquate da burocrazie sindacali, anche se un pò più radicali, che, pur nei loro linguaggi di lotta riportano gli sfruttati nell’ambito istituzionale.

Gli scioperi hanno inoltre mostrato quanto gli interessi dei salariati siano compressi in una non chiara collettività. Ritornare a discernere quali siano gli interessi dei lavoratori vuoi dire rompere la concezione neocorporativa del tutti assieme, padroni e lavoratori, per il bene dello stato. L’identità di stato e collettività ci mostra quali siano gli interessi in gioco e quanto questi interessi siano distanti da quelli dei lavoratori. Compito dei lavoratori più coscienti è oggi indicare la rivolta sindacale per spazzar via l’ignobile legge sul diritto di sciopero.

CHI SI RICORDA DI BHOPAL?

Testi e fotografie di. Giovanni Arici

Questa è una storia semplice, ma vera, di quelle che nascono all’improvviso senza una ragione apparente, di quelle che non si possono dimenticare perchè rimangono fisse nella mente, ma anche negli occhi. Saranno state le nove di sera, pochi visitatori gironzolavano fra gli ultimi stand ancora aperti del World Social Forum e le delegazioni se n’erano già andate. Mentre stavo mangiando il solito riso col solito pollo, un signore dall’aspetto minuto vestito con giacca e pantaloni scuri, si avvicinò al nostro gruppetto (con me c’era Hivy un attivista di Attac francese e altri quattro o cinque suoi amici), e cominciò a parlare in una delle centinaia di lingue indiane. Si rivolgeva a me, ero il più vicino. Rimasi seduto, ma lo ascoltavo nel tentativo di capire cosa stesse dicendo. -Speak english?- chiese un amico di Hivy. No, evidentemente non lo parlava altrimenti l’avrebbe fatto. Quel signore mi guardava negli occhi e continuava a raccontare qualcosa che non capivo. Ad un certo punto pronunciò la parola Bhopal. -Bhopal?- chiesi -Bhopal!- ripetè.

Bhopal vent’anni fà, (proprio quest’anno cade il ventennio; notte 2/3 dicembre). Marco Pollini raccontò magistralmente nella trasmissione di inchiesta “Report” la tragedia. Dalla fabbrica di pesticidi, la Union Carbide, uscì una nuvola composta da vari gas velenosi, più pesanti dell’aria, che si disperse sui villaggi vicini soffocando in una sola notte ottomila persone. Qualche tempo dopo la strage i parenti delle vittime andarono a protestare davanti agli uffici della società e per tutta risposta ricevettero una multa da pagare perchè con la loro presenza e le urla degli slogan avevano distratto gli impiegati riducendone il profitto.

Ammazzarono migliaia di persone, in vent’anni ne hanno storpiato cinquecentomila infine hanno preso a calci nel culo i sopravvissuti.

Quel signore veniva da Bhopal. Forse faceva parte di una delegazione, ma aveva l’aspetto di chi era venuto per capire se veramente si potesse fare qualcosa, se questi incontri fossero l’occasione per costruire il mondo nuovo, o forse venne solamente per portare la propria testimonianza, come aveva fatto con noi. Quando pronunciò la parola Bhopal mi alzai dalla panca e gli strinsi la mano; non potevo parlare in inglese. Lo guardai negli occhi e cercai di trasmettergli tutto il mio dolore e la mia solidarietà. Avrei voluto dirgli che non era solo, ma qui in Europa, come in tutto il resto del mondo c’è gente che ricorda quella strage. Lasciai la sua mano e mi sedetti. L’uomo si allontanò, ma quando si volse incontrò il mio sguardo.

Qualche giorno dopo andai a Bhopal, nella speranza di incontrare quel signore, ma soprattutto per vedere i luoghi di quella disgrazia, per vedere la fabbrica di pesticidi. Ottenni, dai funzionari estremamente gentili, il permesso di entrare. La prima cosa che vidi fù proprio la famigerata cisterna, da dove si sprigionò il gas velenoso, l’isocianato di metile (Mic). Ormai innocua, la cisterna, era sdraiata in mezzo al fogliame. Le altre due, contenenti ancora varie tonnellate di isocianato, erano sepolte lì vicino.

Chiesi al poliziotto che mi scortava di poter salire in alto, per rendermi conto delle dimensioni della fabbrica. Da lassù potevo vedere tutta l’area dove erano sorti gli impianti, ma anche i villaggi colpiti dal veleno. Da lassù mi resi conto di quanto i villaggi fossero vicini e con quale rapidità gli abitanti furono soffocati dai gas. I sacchi e i bidoni pieni di sostanze chimiche, sono ancora lì, abbandonati nelle varie palazzine del complesso industriale. A volte i ragazzini dei villaggi scavalcano il muro di cinta della fabbrica per giocare tra gli alberi, dove hanno le loro tane alcune famiglie di maiali.

Un forte odore di Ddt si sentiva dappertutto. Nei magazzini alcuni caschi di protezione e guanti di plastica, usati dagli operai quella sera, erano sparsi per terra. Nella sala comando vidi i manometri che avrebbero dovuto controllare la pressione nelle cisterne, se non fossero stati fuori uso per la scarsa manutenzione; per fare fronte al calo delle vendite, l’amministrazione della multinazionale decise di tagliare i costi riducendo la manodopera specializzata e di rimandare le riparazioni a quando il bilancio lo avesse permesso, a scapito naturalmente della sicurezza.

Dopo aver scattato un centinaio di foto lasciai il poliziotto e il deposito di veleni col timore di essermi esposto un pò troppo. Quel signore vestito di scuro non lo incontrai ovviamente.

É di questi giorni la scoperta, da parte dell’organizzazione Greenpeace, del covo di Warren Anderson, presidente della Union carbide e maggiore responsabile della tragedia.

Si. Si nascondeva.

MUSICA

LES ANARCHISTES: MUSICA E LIBERTÀ

Questa breve intervista è stata realizzata un freddo venerdì sera, prima del concerto al centro sociale Magazzino 47, in cui, purtroppo erano presenti solo quattro degli otto membri del gruppo. Ai nostri taccuini (il registratore “non era arrivato”…), la voce Marco Rovelligo.

Domanda d’obbligo: siete anarchici?

R. Sembrerà strano, ma quasi nessuno è militante anarchico. Siamo perlopiù libertari o di sinistra, ma senza appartenenze politiche precise. Si va dagli Anarchici ai Centri Sociali. La musica non è solo militanza, ma anche altro. Il gruppo nasce dall’idea di fondere anche canti anarchici.

D. Com’è nato Figli di Origine Oscura?

R. Abbiamo mischiato canzoni di lotta e protesta di varia estrazione: anarchica, socialista, internazionale e anche due pezzi di Ferrè, prima dei Tete de Bois, solo che loro sono stati pubblicati prima. All’inizio il cd è stato autoprodotto. Vinciamo il Premio Ciampi 2002 come miglior debutto dell’anno e ci accasiamo con l’etichetta Storie di Note. Al cd partecipano Rais (Almamegretta) e i Tuxedo Moon.

D. Attività live?

R. Da Genova 2001 in poi è cospicua. Significative le date di Firenze per raccogliere fondi per gli accusati della Diaz e per i detenuti di varie carceri.

D. Prossime iniziative? Un cd con pezzi vostri?

R. Per ora abbiamo solo due pezzi nostri di cui uno su un testo di Erri de Luca. Abbiamo due dischi in cantiere: uno il 25 aprile, un concept album su Piero Ciampi che si chiamerà Universi Concentrazionali, il secondo all’inizio del 2005 con pezzi nuovi.

Il concerto, se pur a ranghi ridotti, è stato grande.

Ora sono distribuiti un po’ ovunque, se volete contattarli questi sono gli indirizzi:

www.lesanarchistes.com

lesanarchistes@lesanarchistes.com

marcorovelligo@libero.it

LEO FERRÉ

LEO FERRÉ, poeta cantante saggista romanziere librettista d’opera autore di sinfonie direttore d’orchestra .Milano, fine anni ottanta. Al Piccolo Teatro, un pianoforte, le luci abbassate; ricordo  Léo alzarsi dal piano, e poi, i pugni chiusi le mascelle contratte i lunghi capelli bianchi, tra luci suggestive iniziava il recital con voce roca e solenne, rabbiosa e trepida, affannata e straziante.

Aveva cominciato a cantare nel 1946, a Parigi  nei cabarets mitici di Saint-Germain des Prés. E’ l’epoca in cui nasce la nuova canzone francese del dopoguerra che in Ferré mostra timbri anarchici  e poetici mai espressi prima. In quegli anni stringe amicizia con gli esiliati spagnoli cui dedica diverse canzoni. Frequenta il gruppo libertario “Louise Michel”. Ai libertari dedica la famosa canzone “Les Anarchistes”. I temi di provocazione libertaria si susseguono incessantemente: “Monsieur Tout Blanc” contro Pio XII, “Mon General” contro De Gaulle, “Allende” contro Pinochet. Nel frattempo mette in musica diversi poeti di cui, così facendo, ha ampiamente divulgato le opere. Villon, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Apollinaire o Aragon, grazie alle versioni cantate dei loro testi, sono stati fatti conoscere a un gran numero di persone che altrimenti li avrebbero ignorati.

Cantava la rivolta e il senso dell’esistenza anarchica e vagabonda con voce carismatica, con tenerezza  e con amore. La  grande forza di Ferrè sta nell’aver praticato con pari fortuna la scrittura letteraria, la composizione musicale e l’interpretazione. In tempi di suoni omologati, le voci come quelle di Ferrè sono difficili da trovare perché poco commerciali. I circa cinquecento brani che ha scritto e musicato rappresentano la prosecuzione naturale della poesia nella musica, e viceversa. Con i suoi  cinquanta album, due opere, una sinfonia, un oratorio lirico,  un romanzo, innumerevoli saggi, tre libri di poesia, per quarant’anni è stato acclamato in tutta Europa, Canada, Giappone. In Italia tuttavia era quasi sconosciuto al grande pubblico nonostante vi abitasse. Infatti trascorse i suoi ultimi venticinque anni a Castellina in Chianti presso Siena. Vi morì il 14 luglio 1993.

TANTO RUMORE PER NULLA

Paolo Bruno

La musica, tra le arti, è certamente una di quelle che nella civiltà umana e nella sua evoluzione ha ricoperto un ruolo fondamentale per la sua importanza evocativa e comunicativa. Il suo uso sociale è sempre stato duplice accompagnando sia le cerimonie della vita politica di una popolazione che i momenti ludici e di svago. Il fatto che ogni stato abbia un suo inno nazionale ci appare banale e scontato eppure è frutto di una scelta consapevole che trova la sua origine proprio nel rapporto identificante che c’è tra

una musica e la sua popolazione. Il concetto nasce nell’800 con l’idea romantica degli stati nazionali ma trae lo spunto da una lunga tradizione di rapporti tra la musica e la funzione politica.

Potremmo dire che tutti i “riti” in quanto tali hanno assunto la musica come cornice evocativa per supportarne la gestualità e l’intrinseca efficacia.

Così la funzione ludica ha invece, nel corso di migliaia di anni, accompagnato i momenti di svago dell’umanità allietandoli con la propria capacità di comunicare emozione.

L’arte si è mossa in questi ambiti come elevazione e unicità del processo creativo ma senza necessariamente essere totalmente svincolata da una sua funzione o un suo rapporto con i due ambiti di provenienza. La musica, in quanto arte, non è assoluta ma legata sempre alle sue forme di produzione di divulgazione e di fruizione ed è di questo che vorremmo qui fornire alcuni modesti strumenti interpretativi.

Il suono, inteso come musica o melodia, non è un concetto astratto o naturale ma implica necessariamente un compositore, un esecutore ed un ascoltatore. La diversa interrelazione tra questi determina fasi ed esiti diversi.

L’avvento della società industriale e dell’età moderna ha portato a profondi cambiamenti del rapporto tra musica e umanità. Sono cominciate a cambiare non le funzioni della musica ne il suo rapporto con fautore che tuttavia ha cominciato ad assumere un rapporto preminente bensì le modalità di esecuzione e sopratutto la sua riproduzione.

Rulli meccanici o un uso dettagliato della partitura possono forse apparire elementi deboli di un cambiamento ma visti a posteriori sono, nell’ottica illuminista, i segni di quanto poi si svilupperà con l’avvento delle nuove tecnologie.

In effetti la storia della musica moderna nasce con gli strumenti per la sua riproducibilità e quindi con la possibilità di renderla commerciabile. Per le altre arti questo problema non si era mai posto; quadri, sculture e libri seppur in originale si potevano vendere e in caso di necessità ricopiare ma sempre in forma unica.

Se possiamo arditamente ipotizzare che la civiltà moderna nasca con la stampa di Gutemberg e che con essa si cominci a formare l’idea di un mondo di “eguali” & “comuni” cittadini il cui sapere si diffonda orizzontalmente per il semplice passaggio di mano in mano del libro, strumento della conoscenza; non possiamo non considerare con altrettanta attenzione i passaggi e le conclusioni di un evoluzione tecnologica nell’evoluzione della musica e le sue implicazioni sociali.

Quale precedente fenomeno culturale e/o sociale aveva coinvolto le giovani generazioni prima dell’avvento della musica pop a partire dalla metà del secolo scorso?

Il disco; la radio; il juke-box, hanno portato alla riproduzione e diffusione della stessa canzone per milioni e milioni di volte.

Questa è solo la premessa di un ampio ragionamento che ci porta all’interno di quella che chiamiamo Industria discografìca ovvero 5 multinazionali con interessi ramificati anche in altri settori della comunicazione e dell’informazione così come in settori della ricerca tecnologica ovviamente prima di tutto al servizio militare e che rappresentano l’80% del commercio di supporti audio-visivi (ma tra il 10 e il 15 % è rappresentato da settori di mercato di paesi di aree del mondo dove queste multinazionali non hanno alcuna penetrazione). Questo ci porta a cercare di capire alcune fasi dell’evoluzione della musica pop in funzione di alcuni innalzamenti degli standard tecnologici dalla fase iniziale della diffusione del grammofono a quella fondamentale per la nascita del fenomeno giovanile e pop della diffusione della radio, del jukebox, del 45 giri fino ai tempi più recenti legati all’home recording ed al CD.

In un mercato nulla avviene per caso e la musica oggi è a tutti gli effetti un prodotto in cui creatività e ribellione sono controllati e dosati al fine di non creare instabilità al sistema.

Le stesse etichette indipendenti servono come bacino di collaudo per i futuri artisti destinati al grosso del mercato e tutti si muovono in un ottica circolare di perpetuazione e mantenimento.

L’ultima grande rivoluzione o tentativo di sovvertire le regole è stata nel decennio 77-87 il punk e le schegge impazzite di quella che fu chiamata la new wave e non tanto o non soltanto la rottura musicale di quei musicisti sgraziati che suonavano quello che gli pareva come gli pareva bastava fosse rumore ne quella successiva di chi provava a mescolare tutto ribaltando gli schemi le forme e le possibili regole dell’attrazione musicale, quanto sopratutto il tentativo di creare reti di produzione e distribuzione alternative di partecipare al banchetto del mercato con regole diverse. Fu tuttavia dopo quell’esperienza che in risposta alle piccole tenaci indie che il mercato si restrinse creando blocchi sempre più ristretti di concentrazioni di marchi rispondenti poi ad un unica strategia di vendita.

I musicisti continuano a fare musica e a divertirci e svagarci ma sulle loro teste si stende una rete di interessi complessa; la lotta tra due tra le più importanti aziende di ricerca tecnologica: Philips Vs Sony che si stanno spartendo il mondo per aree di controllo tecnologico.

Evviva l’era del capitalismo avanzato, là dove il “ sol dell’avvenire” è ormai tramontato ad Amamet; dove la finanza e i potentati economici hanno cominciato la battaglia per il controllo del potere del nuovo mondo globale.

Stiamo tutti bene nel mondo antico, abbiamo cibo salute e confort come non mai; ci manca solo un mercato dove vendere tutto quello che produciamo e che non ci serve.

I grandi burattinai del mondo, sempre indecisi tra il bisogno di sfruttare i paesi poveri per derubarli delle loro ricchezze e aiutarli a diventare essi stessi potenziali acquirenti dei surplus occidentali hanno perso la battaglia ma per la musica il futuro è sempre più incerto. Di sicuro la tecnologia digitale ed internet sono gli elementi fondamentali in gioco anche se a discapito della qualità e della autenticità. Mentre alcune musiche diventano riti sociale di status, come ad esempio la “musica classica” e continua ripetizione di se stessa; la popular music ed ancor di più la dance music hanno eliminato tutti gli ostacoli tecnologici tra l’ideazione e la sua realizzazione creando una iperproduzione destabilizzante.

Le opinioni dell’autore non coinvolgono quelle della rivista.

APPUNTI SU FABER

Enzo

Cosa si può scrivere su De Andrè che non sia già stato scritto, soprattutto a cinque anni dalla sua scomparsa (11 gennaio). Cercherò di limitarmi a qualche “toccata e fuga” tra la sua discografia e quanto realizzato su di lui.

Per quanto riguarda la discografia sarebbe inutile scrivere l’elenco di tutti i suoi lavori. Mi permetto alcune segnalazioni.

1970. In piena contestazione se ne esce con La Buona Novella, basato sui vangeli apocrifi (in special modo sul proto-vangelo di Giacomo), in cui la religiosità, la sua religiosità è cesellata con perle d’autore.

1973. Persino gli aliti notabili della Democrazia Cristiana si scomodarono per accusarlo di “voler fare la rivoluzione a tavolino” ma “Canzone del Maggio” e soprattutto la conclusiva “Nella mia ora di Libertà” (…bisogna farne altrettanta di violenza per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni…), rimangono manifesti politici ineguagliabili.

1984. Esce Creuza de Mä. Allora si diceva World Music, oggi, forse, etnica. Anche qui Faber anticipa i tempi mischiando suoni mediterranei, orientali e arabi con il genovese e i dialetti locali.Alla fine del decennio tutti i critici lo reputeranno il miglior album degli ‘80.

1996. Vengono cantati i nuovi ultimi, i neo-emarginati, come i transessuali, gli zingari e gli immigrati per chiudersi con il testamento di Smisurata preghiera.

Per quanto riguarda invece libri, cd ed alto materiale, mi limiterò, tra la molteplice produzione, a citarvi quelli per me sono più significativi. Innanzitutto il romanzo scritto da Fabrizio a quattro mani con Alessandro Gennari, “Un Destino Ridicolo” (Einaudi), in cui si racconta il tentativo di rifarsi una vita con un colpo da parte di tre diversi malfattori e un finale che ribalterà tutte le certezze.

Tra le biografie (ne sono uscite diverse) la più completa e passionale è di Luigi Riva, Vita di Fabrizio De Andrè, per i loghi di Feltrinelli. Einaudi inserisce tutti i testi delle sue canzoni commentati da Roberto Cotroneo accompagnato da una Vhs di oltre 100 minuti in cui si ripercorre la musica di Faber attraverso le sue rare apparizioni televisive all’interno della collana Parole e Canzoni per Mondadori, a cura di Guido Harari, E poi il futuro libro fotografico ad un prezzo contenuto. Alfredo Franchini, per i Tascabili economici dei Fratelli Frilli Editori, conversa di soppiatto sugli Uomini e Donne di Fabrizio. Infine l’intimistico De Andrè: gli occhi della Memoria, di Romano Giuffrida per i tipi di Eleuthera, bellissima testimonianza di un percorso di vita con/tra Faber.

Per i tributi segnalo Massimo Bubbola che nel quadruplo live Il Cavaliere Elettrico, esegue diversi brani di Fabrizio. Patinato, ma carino, Faber Amico Fragile…, dal vivo i grandi nomi della musica italiana il 12 Marzo 20002.

Ultimo il materiale di “A” rivista anarchica. Il dossier Signora libertà, Signorina anarchia, ventiquattro pagine, stupendo; il cd “Ed avevamo gli occhi troppo belli”, contenente un solo brano musicale e sette parlati, ovvero, le introduzioni ad alcuni brani ed un libretto di settantadue pagine (che da solo vale l’acquisto!); il dvd Ma la Divisa di un altro Colore con cinquantasette minuti del documentario Faber, Moni Ovadia che canta “La Guerra di Piero” e Lella Costa, “Girotondo”, con un altro libretto magnifico.

Per concludere un doppio cd Mille Papaveri Rossi, di trentasette artisti, più o meno noti dell’underground musicale alternativo, basta una sottoscrizione di almeno 15,00 euro a favore di “A” rivista anarchica, mai euro saranno spesi meglio.

Ah, dimenticavo, anch’io, come è successo a De Andrè per il suo mito Brassens, non ho mai conosciuto personalmente, ne ho mai assistito ad un concerto di Fabrizio. Avevo paura che il mito diventasse  uomo.